Primo bilancio delle amministrative del 15-16 maggio. Editoriale del nuovo numero 236
Berlusconi e la destra hanno perso le elezioni amministrative. Il cavaliere aveva puntato molto sul voto del 15-16 maggio e in particolare su Milano, spiegando che un’affermazione del Pdl avrebbe rafforzato il “governo del fare”. Il segnale che arriva è chiaro e quel che è altrettanto significativo è che a Milano la Lega non recupera i voti persi dal Cavaliere, ed anzi arretra del 4% rispetto alle regionali dell’anno scorso.
Non accadeva da vent’anni che Berlusconi dovesse rincorrere il centrosinistra in un secondo turno dove la vittoria della Moratti diventa un’impresa piuttosto ardua. Berlusconi ci ha messo la faccia e ottiene nella sua città natale la metà delle preferenze del 2006. Pisapia conquista tutte le circoscrizioni di Milano al primo turno. Questo dato di per sé dice quasi tutto sul crepuscolo del berlusconismo.Ma c’è di più. Nelle altre grandi città il centro destra non guadagna affatto, nemmeno in una situazione dove il centrosinistra era stato colpito (Bologna) o addirittura travolto (come a Napoli) dagli scandali e dal malaffare. La Lega non concretizza le attese di sfondare a spese dei suoi alleati del Pdl, mentre l'estrema destra scompare dagli schermi.
La polarizzazione del voto non avvantaggia nemmeno il “terzo polo” che nelle grandi città, con l’eccezione di Napoli, e nella maggior parte delle province ottiene percentuali mai superiori al 5%. Un dato politicamente ben poco rilevante che pone molte difficoltà al progetto bersaniano di alleanza di governo con Fini e Casini.
Dove i candidati a sinistra del Pd sono visti come un’alternativa credibile, essi vengono premiati. Questo avviene a Milano, nonostante tutte le contraddizioni di un candidato come Pisapia e della coalizione che lo sostiene. Ancor di più succede a Napoli dove De Magistris batte nettamente Morcone, il candidato di Pd e Sel, e va al ballottaggio. Lo spostamento a sinistra in queste elezioni c’è e lo si vede soprattutto nelle elezioni provinciali, dove spesso il voto combinato della Federazione della sinistra più Sel si attesta attorno al 10% o in alcuni casi lo supera. In generale Sel supera ma non surclassa la Federazione della Sinistra, al tempo stesso i risultati elettorali della FdS in città come Bologna o Torino sono imbarazzanti, posto che sia in coalizione sia da sola, è ferma al 1,5%.
Nel nord del paese il voto di protesta e antisistema è in queste situazioni raccolto dal Movimento 5 stelle. Crediamo che le ragioni del successo delle liste di Beppe Grillo stia nella sua capacità di puntare il dito sulle mille contraddizioni del Pd e sulla sua incapacità in questi anni di condurre una seria opposizione contro il governo, e ciò lancia un monito rispetto alla politica delle alleanze della Fds.
Ministri fuori dalla realtà
I risultati delle elezioni del 15 e 16 maggio costituiscono una svolta nella situazione politica italiana. Indeboliscono ma non liquidano Berlusconi. L’esperienza di questi ultimi mesi ha dimostrato che il Cavaliere in una contesa che si gioca solo sui numeri in parlamento gode di sette vite. Quando è venuto a mancare l’appoggio di Fini, Napolitano gli ha concesso il tempo necessario all’acquisto di una pattuglia di parlamentari necessari a superare la mozione di sfiducia del 14 dicembre scorso. Quando la Lega Nord poche settimane orsono minacciava fuoco e fiamme sull’intervento militare in Libia, il Partito democratico ha risposto prontamente all’appello all’unità nazionale del Presidente della Repubblica.
Con un’opposizione del genere Berlusconi potrebbe dormire sonni tranquilli. Ed infatti lo staff del premier era sicuro dei propri mezzi quando consigliava l’ennesima campagna di attacchi a tutto campo contro i “comunisti”, ed anche la gaffe commessa da Lady Moratti durante un confronto televisivo con Pisapia sembrava rientrare nella logica del “tutto ci è concesso”.
Comprendiamo quindi le ragioni dello stupore e dell’incredulità con cui i Calderoli o le Gelmini hanno commentato i risultati nelle ore immediatamente seguenti alla chiusura delle urne a tv e radio. La dicono lunga su quanto questa gente viva distante dalla gente comune, convinti come erano che la copertura di Berlusconi permettesse loro di poter trattare in maniera sprezzante qualsiasi manifestazione di protesta contro le loro politiche.
Sono stati incapaci di capire la rabbia che covava in maniera nemmeno troppo sotterranea fra tanti lavoratori e giovani, come dimostrato dai referendum di Pomigliano e Mirafiori e anche dalla partecipazione agli scioperi Fiom del 28 gennaio e Cgil del 6 maggio scorsi.
Il vento ha cominciato a cambiare da lì, dalla straordinaria manifestazione del 16 ottobre della Fiom e dal movimento degli studenti dell’autunno scorso che sconvolse Roma quel 14 dicembre, il giorno della mancata sfiducia al governo.
Questo vento portato dalle lotte ha continuato a soffiare ed ha condizionato queste elezioni. La Sardegna ha clamorosamente respinto (98 per cento!) in un referendum consultivo l’ipotesi di ritorno al nucleare, un risultato che si lega indubbiamente anche alle prospettive per la campagna per l’acqua pubblica, che il 26 marzo ha visto a Roma la sua riuscitissima manifestazione nazionale. Sono processi che si sono in parte riversati anche nel voto.
Chi il 15 e 16 maggio si è recato alle urne ha mandato un segnale chiaro: Berlusconi, Bossi e compagnia devono essere mandati a casa, ma ad essere respinte devono essere anche le loro politiche di sacrifici, di taglio allo stato sociale, di cancellazione dei diritti dei lavoratori.
Cancellare Berlusconi, ma battere la Marcegaglia e Marchionne. Ed è qui che cominciano i problemi, perchè il principale partito di opposizione, il Pd, su tutte queste tematiche difende posizioni non molto distanti da quelle di Confindustria, anzi sognano di formare un asse con essa per creare un'alternativa al centrodestra.
Insomma, utilizzare la straordinaria voglia di cambiamento espresso nel voto amministrativo e nelle lotte di questi mesi perchè nulla cambi, come nei due precedenti governi di centrosinistra targati Prodi.
Lo sciopero della Cgil del 6 maggio
Pochi giorni prima del voto lo sciopero convocato dalla Cgil aveva riempito le piazze, nonostante una mobilitazione rinviata all’infinito (a oltre tre mesi dallo sciopero dei metalmeccanici). Abbiamo visto scendere in corteo settori nuovi e particolarmente sfruttati che dimostravano una combattività inedita: dal commercio alla sanità privata, che si collegavano agli spezzoni tradizionalmente più combattivi dei metalmeccanici e che saldavano le loro rivendicazioni con quelle di un pubblico impiego e di un mondo della scuola sotto attacco.
A questa mobilitazione il governo e il padronato hanno risposto con un silenzio sprezzante, mentre i sindacati complici, come la Cisl, hanno gridato allo scandalo per i disagi creati agli utenti del trasporto pubblico.
A chi si attendeva una reazione a tono da parte dei vertici della Cgil, una sponda per chi si è dimostrato disponibile a lottare, la Camusso ha risposto con la proposta di un “patto per la crescita” rivolto al padronato a e Cisl e Uil nel quale ripropone le solite logiche perdenti di indebolimento del contratto nazionale, dell’abbassamento del livello di tutele e diritti, si apre alla logica delle deroghe dai contratti nazionali, nei fatti se non nelle parole. Un regalo per giunta neppure apprezzato dal padronato che tira diritto per la sua strada, e che indebolisce e annulla le stesse ragioni della partecipazione allo sciopero. Qualche giorno prima sul palco del primo maggio a Marsala, la Camusso non aveva battuto ciglio davanti alla rivendicazione della reintroduzione delle gabbie salariali da parte di Bonanni e Angeletti.
Ciò che vogliamo indicare è quindi la enorme contraddizione che esiste tra la ricerca di un cambiamento profondo e le proposte dei vertici. Quanto vale per il terreno sindacale e sociale, è presente anche in queste elezioni e la giustificata soddisfazione di fronte alla sconfitta di Berlusconi nella sua roccaforte non deve farci perdere di vista questo punto essenziale.
Quale alternativa a sinistra?
Quello che ci dice il voto del 15-16 maggio è che la maggioranza dei giovani e dei lavoratori è disposta a un cambiamento radicale. Quello che oggi manca è quale partito a sinistra abbia la forza e le idee per farsi interprete di questo cambiamento, che significa dotarsi di un programma che sia alternativo anche a quello del Partito democratico.
Dopo il 2008 si disse che la sinistra era sparita. Oggi è invece chiaramente percepibile una ricerca di alternative a sinistra del Pd; il punto è che in assenza di una forza capace, per programma e per consistenza, di raccogliere questa domanda, essa si sfaccetta in una serie di dati consistenti sul piano elettorale, ma del tutto privi di una risposta strategicamente credibile. In parte si riflette nel voto ai grillini, il voto alle liste della Federazione della sinistra (Prc-Pdci) segna una parziale ripresa solo in alcune aree del paese, Sinistra ecologia e libertà raccoglie in modo più omogeneo, per non dire delle sconfitte già subìte dal Pd nelle primarie (Milano, Cagliari) o del caso Napoli, dove De Magistris correndo da outsider surclassa il candidato del Pd Morcone. Lo stesso De Magistris va ricordato, rappresenta nell’Italia dei Valori un’immagine più di sinistra ed era stato di fatto emarginato da Di Pietro con la candidatura alle europee.
Il punto è che tutto questo non fa una alternativa, ma una semplice appendice, più o meno ben confezionata, del Partito democratico. E il Pd, al di là del fatto che oggi rida mentre ieri piangeva, rimane fermo sui suoi capisaldi.
Nessuna delle forze oggi presenti a sinistra del Pd ha una strategia capace di sciogliere questo nodo: non Rifondazione comunista, impastoiata nelle contraddizioni della Federazione della sinistra e in un tatticismo che non risolve la sostanziale subordinazione alle alleanze di centrosinistra; non Sinistra Ecologia e Libertà, partito in relativa crescita ma troppo al di sotto delle smisurate ambizioni del suo leader (e di sondaggi fin troppo benevoli e un po’ pilotati), e qui si manifesterà nel prossimo futuro più di una contraddizione, poiché se Vendola insiste nel suo tentativo di scalare il ponte di comando del centrosinistra attraverso la leva delle primarie, dovrà andare ben oltre il recinto di Sel (già essa un partito zeppo di contrasti) e aprirsi a ben altri abbracci. Il passo falso di Napoli dove si è schierata con Morcone e che solo per la debolezza del Prc non ha pagato il giusto prezzo, ne è una anticipazione.
Resta poi un elettorato sempre di sinistra, ma meno legato alle forze organizzate, che in mancanza di un partito credibile è costretto a vagare da un profeta all’altro, oggi Grillo, ieri Di Pietro, nella speranza sempre frustrata di trovare infine la giustizia e l’onestà.
I problemi che restano aperti
Il voto del 15-16 maggio lascia aperti tutti questi problemi, ma la cosa più importante è che essi si pongono su un terreno che è finalmente in movimento. È finita la litania secondo la quale “Berlusconi vince sempre”, “al nord tutti votano a destra”, “gli italiani vogliono la destra”, e via lamentando. È questo che fa paura non solo al governo, ma anche ai “grandi giornali” a partire dal Corriere della Sera che già iniziano a buttare acqua sul fuoco e a suonare l’allarme dell’“estrema sinistra” che troppo condizionerebbe il Pd. Ciò che temono non sono certo i Fassino, i Merola e tutto sommato neppure i Vendola, i De Magistris o i Pisapia. Temono il fatto che per milioni di persone esasperate da tre anni di crisi economica, da un governo che le ha umiliate e tartassate in tutti i modi, il voto contro Berlusconi è stato in primo luogo un voto che chiede lavoro stabile, salari decenti, case, scuole e servizi pubblici. Tutte cose che è molto facile promettere e molto difficile mantenere.
Queste attese non spariscono se perde la Moratti e neppure se domani la sconfitta del centrodestra dovesse condurre direttamente alla crisi di governo. Su questo dobbiamo lavorare, senza farci condizionare dai facili entusiasmi o dalle sbornie elettorali, che già più di una volta negli ultimi quindi anni si sono presto dissolte lasciando solo dei clamorosi mal di testa e, cosa più grave, montagne di speranze tradite che sono state la causa prima delle fortune di Berlusconi e della Lega.
I bisogni operai, i bisogni sociali esasperati dalla crisi, attendono ancora risposte convincenti, partiti e gruppi dirigenti capaci di interpretarli con coerenza. A questo lavoriamo nel nuovo quadro aperto dal voto.
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