EQUITALIA: OLTRE LA MIOPIA DEL FISCO ITALIANO

Le posizioni di Irs sull’Irlanda del Mediterraneo e sulla agenzia sarda delle imposte non offrono soluzioni.

Equitalia, la società pubblica di riscossione è una vera e propria piaga per le piccole imprese sarde. I debiti accumulati sul pagamento delle imposte e i relativi interessi e le more per il ritardo nei pagamenti, hanno fatto lievitare nel giro di un anno l’importo che le 70.430 aziende devono a Equitalia dai 3,51 miliardi di euro ai 4,27 (gennaio 2011). Con la prospettiva per migliaia di aziende di essere chiamate in causa in qualità di soggetti evasori.
I debiti si dividono cosi, a Cagliari 2,23 miliardi di euro per 33.956 società di cui 1.192 fallite; a Sassari 1,41 miliardi per 22.949 aziende di cui 735 fallite; a Nuoro 418 milioni per 8.840 società di cui 220 fallite ed infine a Oristano 207 milioni per 4.685 imprese di cui 204 fallite.
La società Equitalia è totalmente di proprietà statale, (è proprietà dell’INPS e dell’ Agenzia delle Entrate), ma è quotata in Borsa. Irs il 14 aprile farà una “marcia” su Cagliari con una serie di rivendicazioni basate sulla miopia del Fisco italiano che in generale non incidono sulle cause effettive del problema, col solo risultato che farebbero prendere un po’ d’aria ai debitori. L’esazione è eseguita in maniera tale da soffocare queste migliaia di piccole aziende, e lo Stato, con le sue agenzie non si fa molti scrupoli per reperire soldi. Ma chi lavora politicamente per cambiare i destini della Sardegna, come Irs e tutta la galassia dell’indipendentismo interclassista dice di fare, non può non tenere conto di alcune cose.
In primo luogo non è realistico pensare che in Sardegna possano esistere tranquillamente decine di migliaia di piccole e piccolissime imprese. Questo dato rappresenta già di per se una debolezza strutturale dell’economia sarda, disperde i lavoratori e crea una competizione al ribasso su tutto, rendendoli completamente succubi della jungla del mercato.
In secondo luogo la dilazione del pagamento o la riformulazione dei criteri con cui si pagano le imposte non cambierebbe di molto la sostanza. La tendenza trentennale dello stato italiano di caricare lavoratori e piccolissimi imprenditori di imposte regionali, diminuendo i fondi statali alle regioni (nel 1980 l’86% delle entrate correnti delle regioni proveniva dallo Stato, nel  2009 il 55%) è sicuramente un sintomo del fatto che lo stato, col contributo decisivo del centrosinistra, ha cercato di liberarsi del fardello della spesa pubblica per poter meglio gestire l’accumulazione capitalistica.
Per cambiare significativamente la questione del fisco bisogna quindi intervenire sulla struttura della proprietà, e non semplicemente rivendicare un’agenzia “sarda”. La questione non è nazionale ma di classe. Solo sotto il controllo stretto dei lavoratori sul bilancio dello Stato, arricchito dall’esproprio di tutte le banche, si può pensare di creare posti di lavoro, e soprattutto pianificare una distribuzione equa della produzione.
Lo stato italiano che fa gravare gran parte del suo peso sui lavoratori salariati, non può riformare in assoluto questa situazione, ma anzi aggravare sempre di più il proprio peso, soprattutto a causa del suo immenso debito pubblico. All’interno del capitalismo non si può pretendere una fine dello strozzinaggio fiscale, ma solamente qualora una ribellione popolare (come ha detto di recente il segretario della CGIL di Sassari, pur intendendo altro) abbia tolto alla minoranza che governa il paese tutte le ricchezze (il 2% possiede più del 50% della ricchezza nazionale!).
Abbiamo già notato in un precedente post come le illusioni di Irs sulle politiche fiscali dell’Irlanda si siano scontrate con una dura realtà che presenta oggi una tigre che sarà pure celtica, ma che è in primo luogo di carta. Fare della nostra isola un’Irlanda del Mediterraneo, significa ignorare le vere cause del disastro che oggi attanaglia la repubblica indipendente di Eire. Primo passo per questo deve essere una piattaforma condivisa che unisca salariati, piccolissimi imprenditori, pastori in una lotta generale che butti giù il governo nazionale e regionale, per imporre un cambiamento serio, che non può essere ottenuto all’interno dell’attuale quadro socio-politico.

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