RIVOLUZIONE IN YEMEN E FINE DEL REGIME

Un popolo stremato dalle politiche capitaliste, una rivoluzione che non vuole solo cambiamenti di facciata.

In questi di giorni di guerra alla Libia è opportuno chiederci come mai non venga applicata la stessa morale umanitaria nei confronti del popolo dello Yemen, in seguito alle sollevazioni represse nel sangue dal regime? Prima di rispondere a questa domanda è opportuno capire perché si protesta.
Per i 23 milioni di abitanti questo paese situato a sud della penisola arabica la situazione non è più tollerabile.
La disoccupazione ha raggiunto cifre da record (in generale il 40% della popolazione è senza lavoro, ma per i giovani la situazione è anche peggiore) e l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità sta limitando l’accesso al cibo, con conseguenze disastrose per molti bambini affetti da particolari forme di malnutrizione. Le “riforme” imposte dall’Fmi in seguito al processo di unificazione tra lo Yemen del nord e quello “socialista” del sud (nel 1990) hanno dimostrato la loro natura. Allo stesso tempo un regime che, rispettando tali diktat, non è capace di soddisfare minimamente i bisogni più elementari, non può dormire sonni tranquilli a lungo.
Così a gennaio, in sintonia con tutto il mondo arabo, sono iniziate le proteste. Il regime di Ali Abdallah Saleh, presidente al potere dal 1979, ha cercato di placare gli animi annunciando aumenti di stipendi e promettendo di dimettersi nel 2013, allo scadere del suo mandato. Tutto ciò non è servito. Venerdì 18 marzo dopo la tradizionale preghiera, il popolo è sceso nelle strade di San’a chiedendo le immediate dimissioni di Saleh. La risposta è stata una brutale repressione con cecchini nascosti sui tetti che hanno sparato sulla folla uccidendo una cinquantina di persone e ferendone un centinaio. Come se non bastasse, su richiesta di Saleh, il parlamento ha approvato nuove leggi di emergenza con gli obiettivo di sospende la costituzione, censurare i media, vietare manifestazioni di piazza e conferire poteri arbitrari agli agenti di sicurezza per arrestare e detenere chiunque sia solo sospettato di militare tra gli insorti senza processo giudiziario. Come da copione questi avvenimenti stanno provocando delle spaccature ai vertici. Numerose defezioni nell’esercito stanno isolando Saleh, ormai rimasto solo con le forze d’elite che, sia detto per inciso, sono addestrate ed equipaggiate dagli Usa. Il premio Nobel Obama ha più che raddoppiato gli aiuti militari 67 milioni di dollari nel 2009 a 150 milioni nel 2010. Gli imbarazzanti documenti del Dipartimento di Stato resi noti da Wikileaks ci danno una lucida spiegazione di questo supporto finalizzato alla lotta contro l’opposizione interna: il gruppo sciita Houthis nel nord e i separatisti del sud “Harakat al-janubiyya”. Troviamo quindi nella “lotta al terrorismo”, ma anche nel controllo del golfo di Aden, la risposta sul perché non si attacca lo Yemen nel nome dei diritti umani.
Tornando ai disertori dell’ultima ora, chi sono i più importanti in questo momento? Sicuramente il generale Ali Mohsen al-Ahmar: uno tra i più ricchi del paese, membro influente della vecchia guardia dello Yemen, pilastro nella lotta contro lo Yemen del sud prima della riunificazione con il nord e elemento nella restaurazione capitalista. Insomma, il classico elemento opportunista che cerca una collocazione nel possibile post-Saleh e al tempo stesso un’alternativa alla rivoluzione per la monarchia saudita spaventa dal contagio.
La rivoluzione ovviamente, come in Tunisia e in Egitto, non si accontenterà di cambiamenti di facciata e molto dipenderà dalle posizioni che assumeranno le forze di sinistra. Questo ci spinge a fare una riflessione generale: le spaccature della classe dominante per noi devono essere viste come il prodotto di un processo che parte sempre dal basso. è ovvio che ci sarà sempre chi, approfittando della situazione, cerca di dirottare il movimento verso i lidi della continuità con il precedente regime in chiave anti rivoluzionaria. Ma questo non significa disconoscere un moto rivoluzionario, che per sua stessa essenza non è lineare, ma è fatto di alti e bassi alternando fasi vittoriose con altre di sconfitta. Compito di chi vuole cambiare questa società è capire questi fenomeni, non sentenziare.

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