I DIVERSI “MARXISMI” ALLA PROVA DEL 1905

Prima parte di una discussione sulla Rivoluzione permanente in contrapposizione al gradualismo riformista.

Il 22 gennaio del 1905 (9 gennaio per il calendario giuliano adottato in Russia fino al 1917) ebbe inizio la rivoluzione, in seguito alla repressione di una manifestazione operaia pacifica (guidata dal Pope Gapon per supplicare allo Zar le riforme) che lasciò sulla piazza del Palazzo d’inverno, a Pietroburgo, 4 mila morti.
La rivoluzione del 1905, che raggiunse il culmine nel dicembre con l’insurrezione di Mosca (schiacciata dall’esercito) passando per l’ondata di scioperi, la promessa dello zar di concedere una costituzione liberale e, soprattutto e la costituzione di una rete di organismi consiliari di contropotere (i Soviet) nell’ottobre, è importante per la nostra storia perché ha rappresentato l’esperienza con la quale tutte le tendenze all’interno della socialdemocrazia dovettero fare i conti.
Era infatti ben vivo il dibattito tra chi, da una parte, dava al marxismo una visione gradualista ed evoluzionista, ricalcando quanto avvenuto in occidente e nei paesi sviluppati, e chi invece propugnava la rottura rivoluzionaria operaia anche in Russia. I menscevichi, che si contrapposero ai bolscevichi nel II congresso del Partito socialdemocratico (Posdr), nel 1903 per questioni organizzative, cristallizzarono la loro opposizione al marxismo rivoluzionario proprio in seguito agli avvenimenti del 1905, riecheggiando le posizioni dei “marxisti legali” (i socialisti non dovevano perdersi, a detta del loro leader Pëtr Struve, dietro “irrealizzabili progetti di sovvertimento dell’universo”), degli “economisti” (i lavoratori devono mirare esclusivamente al miglioramento delle condizioni economiche) e dei revisionisti tedeschi (la socialdemocrazia deve mirare alle riforme attraverso una pressione parlamentare).
Per i menscevichi la classe operaia, insorgendo contro lo zarismo, si era spinta troppo in la spaventando la borghesia e compromettendo la rivoluzione, che per loro era borghese e democratica secondo la concezione gradualista delle due tappe lontane tra loro (una, quella capitalista, propedeutica a quella socialista). Tale concezione era già stata respinta sia da Marx (che non faceva del suo schizzo - parole sue – della genesi del capitalismo occidentale una teoria da imporre a tutti i popoli e in particolare ai paesi arretrati) che da Engels (che nell’introduzione all’edizione russa del Manifesto parlava del passaggio diretto alla forma comunistica superiore solo se la rivoluzione russa diveniva segnale della rivoluzione proletaria in occidente).
Per Lenin e i bolscevichi la borghesia aveva invece  dimostrato di non essere capace di portare a termine la stessa rivoluzione democratica e borghese. Tuttavia la rivoluzione non avrebbe dovuto portare a una “dittatura socialista” bensì a una dittatura democratica degli operai in alleanza con i contadini che avrebbe portato all’assemblea costituente, alla riforma agraria e alle otto ore lavorative.
Per Trotskij, unico marxista rivoluzionario protagonista del 1905 (alla guida del soviet di Pietroburgo) e sviluppatore di una terza opzione, la concezione bolscevica rischiava tuttavia di condurre ad un’autolimitazione, tagliando le ali alla “rivoluzione ininterrotta” verso il socialismo che comunque, e sarebbe un delitto non dirlo, era propugnata da Lenin. Lo stesso Lenin che con le sue “Tesi di aprile” dichiarò superata nel 1917 la vecchia parola d’ordine della “dittatura democratica” perché gli eventi rivoluzionari avevano superato le previsioni, e che combatté l’allora gruppo dirigente bolscevico che riteneva invece «inaccettabile» (come apparve in un’editoriale sulla Pravda dell’8 aprile del 1917 diretta da Stalin) la sua posizione. Per Trotskij e Lenin (ma anche per Marx che già nel 1850 parlava di rivoluzione permanente), il proletariato al potere nei paesi arretrati avrebbe dovuto certamente portare a termine la rivoluzione borghese, ma al tempo stesso spingere per misure anticapitaliste stabilendo una continuità rivoluzionaria tra il programma minimo (le riforme) e quello massimo (il socialismo).

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