A Cagliari, in occasione dello sciopero della Fiom del 28 gennaio, si consuma una frattura del tutto evitabile.
Quando le discussioni tra burocrazie prevalgono sui valori dell’unità tra il sindacalismo combattivo gli esiti raramente possono essere diversi da quelli che oggi abbiamo sotto gli occhi. Cagliari vedrà così due “28 gennaio”: il corteo organizzato dalla Fiom Cgil partirà da piazza Garibaldi per concludersi in piazza del Carmine, mentre quello dei sindacati di base e nazionalitari partirà da piazza Giovanni XXIII con piazza Costituzione come meta finale.
Con il risultato che a rimetterci saranno quei lavoratori schierati nelle rispettive sigle che anche stavolta si vedranno coinvolti in un’opposizione assurda tra confederali e non, e, sopratutto quei lavoratori non sindacalizzati che, insieme agli studenti dovranno ora scegliere con chi sfilare. Può anche darsi che molti rimarranno a casa dopo questa ennesima prova di debolezza, alla faccia dei buoni propositi di portare quanta più gente contro i piani di Marchionne.
Prendendo atto positivamente di un appello lanciato dai compagni Vincenzo Pillai, Gianluigi Deiana e Manuela Lucchesu, teso a scongiurare quanto invece si è deciso, non abbiamo alcuna intenzione di analizzare comunicati e silenzi, né di difendere nessuno: non è il nostro compito. Tanto più che abbiamo ben presente la differenza tra la Fiom che combatte Marchionne e le diverse Fiom territoriali che in alcune parti d’Italia non corrispondono minimamente alla combattività dimostrata a Pomigliano e Mirafiori.
è passato poco tempo da quando i silenzi della Fiom di Sassari sono stati l’unica risposta a quanto pare possibile alla proposta dei Giovani comunisti di organizzare un’assemblea con lo scopo di informare sulle ragioni della grande manifestazione che poi si è tenuta 16 ottobre. E sappiamo che questo silenzio ben si sposa alla risposta evasiva data dal segretario della Camera del lavoro di Sassari a una proposta, sempre dei Giovani comunisti, che verteva sulla costruzione di una cassa di resistenza provinciale a sostegno delle lotte presenti e future. Sappiamo anche che la Fiom sarda, nel recente congresso Cgil, ha visto prevalere le posizioni moderate del documento della maggioranza epifaniana e non, a differenza del dato nazionale, quelle dell’allora segretario dei metalmeccanici Rinaldini. Il fatto che la manifestazione sia chiusa da Fausto Durante, leader della “destra” della Fiom (il quale ha candidamente affermato che per salvare il contratto nazionale è necessario innovarlo e costruirlo in base alle caratteristiche produttive delle aziende, e che a Mirafiori dopo l’eventuale “si” al referendum la Fiom avrebbe dovuto mettere una firma tecnica all’accordo in attesa di tempi migliori) la dice lunga.
Ma un conto sono le burocrazie Fiom locali (e non pensiamo che Sassari e la Sardegna siano un caso isolato), un altro e ben più importante conto, è la speranza che la Fiom, con la sua determinazione, ha suscitato nei lavoratori, negli studenti, nei militanti della sinistra rispetto alla possibilità di riprenderci tutto quello che ci è stato tolto in un trentennio che ha visto il suo battesimo proprio nella sconfitta operaia di Mirafiori. Se ne sono accorti anche i sindacati di base (che non sono molto forti nell’industria e che a stento dialogano tra loro, diciamo la verità) utilizzando quella data per dare una risposta comune all’arroganza del capitalismo italiano e delle sue istituzioni.
Ci possono e ci devono stare rimostranze e denunce di affossamento unilaterale di proposte unitarie, ma sappiamo che una certa flessibilità tattica da parte dei sindacati di base avrebbe consentito innanzitutto di non spaccare il movimento, e in secondo luogo di far conoscere in modo decisamente più fraterno e a quanti più lavoratori l’accaduto. Nulla, lo sottolineiamo, può oggi consentire una spaccatura del movimento in un momento in cui sarebbe opportuna anche una piattaforma operaia in favore delle lotte dei pastori per sancirne l’alleanza strategica, e soprattutto in un momento di riscossa che si sta generalizzando in Italia (e non solo) vista la crisi irreversibile di un sistema che a tutto può portare tranne che al benessere collettivo.
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