Il programma di austerità della coalizione governativa inglese alla prova delle lotte studentesche e operaie.
Con un disavanzo di bilancio del 11,5% e un debito pubblico del 68,1%, la Gran Bretagna si unisce ai paesi euro considerati l’anello debole del capitalismo europeo. La coalizione formata dai Tories e dai Liberaldemocratici e guidata da David Cameron ha annunciato a tal proposito il più grande programma di austerità dal 1920: tra le altre cose tagli per 83 miliardi di sterline, la perdita di 490.000 posti di lavoro in 4 anni e l’innalzamento dell’età pensionabile a 66 anni.
Un programma che, magari con qualche sfumatura, non sarebbe stato accantonato neanche dal Labour in caso di vittoria: secondo l’ormai ex cancelliere dello scacchiere (il corrispondente del nostro ministro delle finanze) del governo di Gordon Brown, Alistair Darling, il dimezzamento del deficit in 4 anni era un punto “non negoziabile” del loro programma.
Questa impostazione non è solo il frutto di un ormai risaputo odio verso il pubblico tipico dell’ala conservatrice, ma rappresentano il prezzo da pagare, in termini capitalistici ovviamente, per recuperare tutta quella montagna di soldi messi a disposizione per salvare i banchieri dopo lo scoppio del cosiddetto “credit crunch” nel 2008.
Misura che si è realizzata dovunque con un bail-out complessivo di 10.800 miliardi di dollari, e che in Gran Bretagna ha visto anche la “nazionalizzazione” di Northern Rock e della Bank of Scotland. Virgolette d’obbligo visto che sono stati nazionalizzati i debiti lasciando intatti i profitti dei banchieri: il costo totale per ogni famiglia inglese corrisponde infatti a 31.000 sterline. Ma le rivolte non si sono fatte attendere, come dimostrano gli studenti in rivolta contro l’aumento delle rette universitarie.
Anche queste misure, che vanno di pari passo con la politica dei tagli, hanno qualcosa in comune con il Labour: nel 2004 la proposta di Tony Blair di innalzare le rette da 1250 a 3290 sterline divenne legge grazie al sostegno dei Tories alla camera dei Comuni, con un meccanismo di rientro del debito privato a tutto vantaggio delle banche.
Vediamo quindi che in tutta Europa la socialdemocrazia, con le sue politiche di attacco ai ceti più deboli, abbia spianato la strada alle destre. Ora, con il taglio dei fondi destinati all’insegnamento universitario del 40%, la Browne Review (il progetto di riforma redatto da una commissione “indipendente”) auspicava l’innalzamento delle tasse ad libitum, ma il governo ha dovuto fare un passo indietro per paura delle conseguenze politiche e sociali, limitandosi ad aumentare le tasse “solamente” a 9.000 sterline l’anno. La reazione degli universitari non è stata per questo meno dura.
Lo stesso dicasi per la further education (fascia che va dai 16 ai 18 anni d’età) con tagli previsti del 25% e indennità di mantenimento all’istruzione ridotte all’osso.
Dal 10 novembre studenti e lavoratori della scuola hanno marciato in 50.000 convocati dalla Nus (l’unione nazionale degli studenti) e dall’Ucu (l’unione dei docenti dei college); nei giorni seguenti altre manifestazioni sono state convocate con azioni eclatanti come l’assalto alla sede del partito conservatore, all’auto di Carlo e Camilla, al monumento del milite ignoto, a quello di Churchill ecc. Pur capendo il fatto che i media e i politici borghesi strumentalizzino questi fatti per sminuire il contenuto della rivolta di una generazione ormai privata del suo futuro ma anche del suo presente, i marxisti, in Inghilterra come dappertutto devono fare una seria analisi su cosa è l’azione diretta e quanto può essere nociva se non coordinata con l’azione reale del movimento operaio in una prospettiva anticapitalistica.
Le riforme del passato – educazione gratuita, copertura sanitaria universale, pensioni decenti al raggiungimento dei 65 anni – non sono più compatibili con il capitalismo in crisi. Per questo la rivolta studentesca deve essere il primo passo di una lotta più generale per rivendicare il controllo pubblico sull’economia e sul credito per trasformare la società.
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