La questione ambientale è una delle principali contraddizioni di questo sistema economico: l’avvelenamento delle popolazioni e il continuo susseguirsi di emergenze rendono sempre più evidente che affrontare il problema ambientale vuol dire affrontare parallelamente quello della produzione e del suo carattere privato. Essendo questo un sistema che è orientato al profitto di pochi, il che equivale alla realizzazione di una produzione non pianificata democraticamente e razionalmente per soddisfare i bisogni umani, siamo convinti che i padroni non potranno lavorare in direzione di una reale riconversione ambientale.
Si noti l’arroccamento su tecnologie non solo obsolete, ma anche palesemente autodistruttive, così come l’incapacità di operare innovazioni che non siano puramente di facciata persino in quei settori considerati strategici.
Pensiamo all’energia. Come è possibile che si continui a puntare sulla fissione nucleare quando le fonti energetiche rinnovabili rappresentano una reale alternativa? La risposta la troviamo nei profitti dei monopolisti gestori delle poche e pericolose riserve di uranio. Cosa c’è infatti di più democratico, pubblico e gratuito del sole, diffuso su tutta la superficie terrestre? O del vento? Al di là dell’assurda politica degli incentivi che premia i grandi colossi dell’energia deturpando l’ambiente (basti dare uno sguardo ai “nostri” campi eolici), pensiamo a cosa porterebbe una razionale dislocazione dell’eolico e del fotovoltaico, l’interconnessione e la distribuzione dell’energia prodotta via computer.
Ancora, sull’automobile: stando a un articolo del Sole 24 ore del luglio 2009 «i trasporti assorbono circa un terzo dell’energia totale consumata a livello comunitario». Perché non si sviluppa il progetto dell’auto elettrica? Forse perché le compagnie petrolifere acquistano e registrano i brevetti di batterie ricaricabili impedendone la diffusione attraverso la “patent protection”? O forse perché i principali azionisti delle case automobilistiche sono sempre i petrolieri?
Lo stesso dicasi per i progetti di chimica verde portati avanti da chi in questi anni non si è fatto alcuno scrupolo nell’avvelenare un intero territorio come quello turritano. L’ipotesi delle bioplastiche e delle centrali a biomasse, basate sullo sfruttamento intensivo di un particolare prodotto agricolo rischiano di creare in Sardegna una nuova monocoltura (come quella del mais), di far schizzare in alto prezzi di un prodotto consumato nella nostra alimentazione e in quella di alcuni animali da carne (come ad esempio il maiale), di consumare ingenti quantità di acqua (il mais è tra le colture che più ne hanno bisogno), di orientare i produttori sull’ogm con tutto ciò che ne consegue. E chi garantisce poi che le centrali a biomasse alla fin fine non si trasformino in altro (inceneritori) trovando vita nella classica e dannosa eliminazione dell’immondizia (si veda la lotta dei cittadini di Buddusò)?
Per questo quando parliamo della necessità di un nuovo modello di sviluppo dobbiamo essere consapevoli che solo una società alternativa può garantirlo. Nulla è possibile all’interno di questo sistema socio-economico governato da padroni senza scrupoli. Per questo lavoriamo per diffondere la consapevolezza che solo un controllo pubblico sui grandi mezzi di produzione, solo il protagonismo e la sapienza operaia, solo l’interesse collettivo delle comunità possono garantire un sistema produttivo che tende ad autoalimentarsi nel rispetto dell’ambiente.
Occorre perciò andare oltre un’impostazione che si limita a contrastare il consumismo, poiché è nell’anarchia della produzione (e quindi nella tendenza alla sovrapproduzione) che sta la causa principale della crisi capitalista e della crisi ecologica in atto; così come occorre andare oltre i localismi organizzativi di certa sinistra, data la rilevanza globale della questione ambientale. Solo un’organizzazione internazionale può salvare il pianeta dallo sprofondamento dell’abisso: se ieri il “socialismo in un solo paese” è stato una tragedia, oggi rischia di esserlo l’”ecologismo”.
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