SUL DEBITO PUBBLICO E SULL’USCITA DALL’€

Alcune considerazioni dopo l’incontro del primo ottobre e prima di quello promosso da Rivoluzione democratica. 

Dopo aver pubblicato dei pezzi sull’appello “Dobbiamo fermarli” e sull’assemblea del primo ottobre che da esso è scaturita, ci pare doveroso scriverne un altro con lo scopo di mettere in guardia dall'uso troppo disinvolto che si fa degli slogan "non paghiamo il debito pubblico" e "usciamo dall'euro" (quest’ultimo peraltro non attribuibile all’evento messo in campo da Cremaschi e compagni quanto a Rivoluzione democratica e al Campo Antimperialista che ne stanno per organizzare un altro).
Il debito pubblico dello stato italiano, per i cui interessi son necessari circa 80 miliardi di euro all'anno, è la causa delle recenti e prossime finanziarie che tagliano e taglieranno la spesa sociale, che impongono e imporranno sacrifici ai lavoratori. Ovviamente non nascondiamo che il debito pubblico è, soprattutto, conseguenza di passate politiche filopadronali che hanno costretto all’emissione di titoli di stato, e che portano al pagamento degli interessi. Detto questo, un conto è evitare di far pagare coi sacrifici imposti alle classi deboli i debiti che lo stato ha col grande capitale finanziario. Un altro è chiedere allo stato capitalista, come se fossimo suoi consiglieri, di non pagare il suo debito. Riteniamo corretto che l’appello “Dobbiamo fermarli” aggiunga la rivendicazione della nazionalizzazione delle banche senza costi per i cittadini (ovvero, senza indennizzare i banchieri ma solo i piccoli risparmiatori). Ma laddove non si arriva a tanto (magari limitandosi alla lotta per la patrimoniale, come fa anche il Prc) si corre il rischio di venire incontro solo ai capitalisti italiani e allo stato dando loro un po’ di respiro attraverso la ristrutturazione del debito stesso, e cioè garantendo i guadagni del grande capitale a discapito dei lavoratori. Inoltre non risolverebbe il problema della crisi economica, della distruzione dei diritti dei lavoratori, dell'abbassamento dei salari e dell'aumento della precarietà e della ricattabilità dei lavoratori. Ad esempio, l’Argentina ha fatto default in passato, ma ciò non ha significato la fine dello sfruttamento capitalista. Al tempo stesso occorre evitare che si cada nella, assai peggiore, rivendicazione dell’uscita dall’euro in favore una lira pronta ad essere svalutata competitivamente in modo tale da favorire all'Italia maggiori esportazioni. In primo luogo occorre avere una visione complessiva e vedere che se c'è uno stato che svaluta la propria moneta non ne troviamo uno benefattore che la rivaluta, ma anzi, si arriverebbe ad una guerra valutaria per assicurarsi dei vantaggi l'uno sull'altro e quindi al protezionismo. Bisogna ricordare che quello che ha trasformato la crisi del 29 nella Grande Depressione è stato proprio il protezionismo e le svalutazioni competitive. In secondo luogo una svalutazione competitiva porta dritti a misure inflazionistiche che colpiscono i lavoratori in primis. Ricordiamoci che la scala mobile non c’è più e che tale provvedimento, così come tanti altri, è stato preso sotto la lira e non sotto l’euro (tanto per capire che non è la sovranità monetaria a fare la differenza). Vediamo quindi che non pagare il debito estero rimanendo in un quadro di compatibilità capitaliste e in un’ottica nazionale, così come ritornare alla lira, altro non sono che politiche che esportano lo sfruttamento dei lavoratori. Occorrerebbe altresì uscire da slogan tipo “Europa Sociale” o altri relativi alla regolamentazione della finanza per ragionare in un’ottica diversa e che si oppone perfino al supergoverno delle finanze voluto da Prodi & co. Le sinistre europee dovrebbero quindi lavorare ad unificare le diverse lotte nel continente propagandando la federazione socialista dei diversi popoli europei (incluso quello sardo, tenuto molto lontano dalle discussioni sulla sovranità della lira italiana e sulle esportazioni dei padroni italiani) per costruire un nuovo sistema su basi volontarie, solidaristiche e operaie per avere in comune non solo la moneta, ma anche la reale democrazia (che per noi non può non essere quella dei consigli), il controllo sociale sulla produzione, sulla distribuzione, sul credito.

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